Tecnologie contro le disuguaglianze, le politiche necessarie
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23 Marzo 2024di Andrea Manzella
Oggi nessuno al mondo nega che i nuovi mezzi della comunicazione digitale abbiano un decisivo effetto sulla formazione della volontà e dell’opinione dei cittadini. Lo spazio pubblico – quello dove si esercitano le libertà individuali e insieme si formano le volontà collettive – ha cambiato la sua intima struttura.
Da un lato, le libertà individuali ricevono con internet una falsa espansione. Si crea in realtà un isolazionismo di massa senza possibilità di coagulo in una comune struttura politica di riferimento. Dall’altro lato, la formazione dei flussi di opinione collettiva risulta fortemente condizionata e condizionabile da nuove forme di dominio politico ed economico. La “sovranità popolare” che nella nostra Costituzione è fonte – e allo stesso tempo vincolo – di ogni potere pubblico, appare così fortemente vulnerabile. La padronanza di pervasivi mezzi di comunicazione di massa rischia di far perdere ogni significato concreto alla stessa espressione di “sovranità popolare”. Ognuno comprende come la rapidissima evoluzione dell’intelligenza artificiale generativa aumenterà – e quasi banalizzerà – le possibilità di creare “verità inautentiche” e immagini falsificate. Attraverso di esse la manipolazione dello spazio pubblico giunge a forme che, ben a ragione, richiamano i concetti di “oppressione” e di “colonizzazione”. Sono parole che giustamente evocano, per contrasto, nuove lotte per le libertà politiche e per l’autodeterminazione.
Non a caso questi pericoli attuali e concreti sono stati avvertiti innanzitutto in Europa con i primi testi legislativi varati dall’Unione. Si cerca con lungimiranza – ma anche con affanno – di garantire la trasparenza e il contenimento della predominanza della Rete e delle grandi corporazioni e lobby che vi sono dietro. Ma l’Unione europea è per ora soltanto una potenza “regolatoria”: produzione e sviluppo dei nuovi media sono altrove. E, d’altra parte, di fronte ad un potere che rischia di diventare addirittura “sovrumano”, qualsiasi regola appare fragile e aggirabile. Per difendere i cittadini e la loro libertà occorre perciò che, accanto alle regole – e magari prima di esse – vi siano le Istituzioni. La consapevolezza dei rischi e della potenzialità dei nuovi media non può scindersi da una riflessione sulla nostra architettura democratica. Quella che si chiama la “crisi dell’intermediazione” – che per cause diverse viviamo nei partiti e nei sindacati – ha aperto sterminati deserti senza ostacoli all’invasione di una comunicazione politica priva di contro-informazione. Delle istituzioni politiche della Repubblica – “porticato” secolare tra il potere e la società civile – resta a questo punto, a tutela della sfera pubblica, solo il Parlamento. E’ questa dunque l’Istituzione da difendere con rinnovato vigore: proprio perché con la sua struttura dialettica maggioranza-opposizione, con la sua rappresentatività delle minoranze, ha di per sé una forza discorsiva contro le imposizioni artificiose di pensiero e di credenze. E questo vale anche per un Parlamento pieno di vuoti e di difetti, da colmare e correggere al più presto, come il nostro.
In questo panorama è francamente assurda la pretesa di volere – di fatto – eliminare il Parlamento: sbandierando il mito, ormai palesemente falso, della “democrazia diretta”. Non si tratta di preoccupazioni tecnico-costituzionali (che pur ci sono e sono assai grandi). Non si tratta solo di ideologia (e di tutte le ideologie del nostro tempo quella del “parlamentarismo” è ora la più logica a dover sopravvivere). Si tratta semplicemente di tener conto di situazioni fattuali, di pericoli concreti e non immaginari.
Quando all’Assemblea Costituente si scelse la forma di governo per il nostro Paese, non si fece questione né di tecnicismi giuridici né di ideologie. Si tenne conto solamente delle “condizioni della società italiana”. E si disse “no” al presidenzialismo e alla connessa elezione diretta: perché la nostra società era considerata non omogenea e pericolosamente frammentata.
Oggi la situazione è diversa ma – se possibile – ancora più allarmante. E quel “no” ancora più giustificato. Perché le “condizioni” oggettive della nostra società, almeno nella parte politicamente più importante e sensibile, quale la formazione dell’opinione pubblica, sono riconosciute da tutti vulnerabili. Come dappertutto, del resto, l’architettura democratica è insidiata e si deve cercare di consolidarla contro le nuove minacce e non lasciarla indifesa o, peggio, indebolirla con esperimenti avventuristi.
Sono preoccupazioni mondialmente condivise: come dimostra il tema del prossimo G7, che si terrà proprio in Italia, accentrato sulla intelligenza artificiale, con le sue potenzialità economiche e i suoi rischi politici.
Emerge dunque un’assai vistosa contraddizione nel nostro governo. Sul piano internazionale, partecipa pienamente dei timori sugli effetti distorsivi dei nuovi media mentre sul piano interno si fa promotore della elezione diretta del presidente del governo, senza tener conto di uno spazio pubblico divenuto indifendibile, privo di vitali corpi intermedi, contro la deriva illiberale. La ragione consiglia invece di prendere atto della grande mutazione dell’elettorato per cause che eccedono i confini nazionali e riguardano l’universo mondo. Di constatare la crescente intensità con cui le nuove tecnologie di comunicazione hanno capacità predatorie sulla formazione della decisione pubblica: con campagne massive e di difficilissimo contrasto negli slogan, nelle deep fake, nella falsificazione persino delle immagini. E di concludere che contro tutto questo c’è semmai la necessità di maggiori intermediazioni, di filtri, di selezioni: di partiti e di parlamentarismo, insomma. Anche e soprattutto perché la democrazia diretta, nel moderno contesto di comunicazione, non solo è spenta come fattore di verità politica ma conduce a una retrocessione antimoderna. La forza della suggestione di massa si basa ormai sulla reintroduzione di fattori emotivi che la modernità aveva escluso dal discorso politico: come il condizionamento religioso, la morale sessuale, il pregiudizio razziale.
La lungimiranza del primo articolo della Costituzione nell’indicare i «limiti» alla «sovranità» popolare si dimostra oggi nella sua pienezza. Di fronte ad un «mondo guasto» per la banalità del male: apparentemente inarrestabile nella proliferazione di odi e di menzogne di massa – e nella impunità di chi ha questa signoria di inquinare – gli unici rifugi sono nel contraddittorio politico e sociale per verificare la verità dei fatti, nella critica delle fonti di comunicazione, nella scelta “motivata” di chi deve governare (come dice la Costituzione). In tutto quello cioè che anche un Parlamento, da aggiustare come il nostro, può tuttavia, per il fatto stesso di esserci, assicurare con il suo pluralismo. E che una elezione diretta, in regime di dilagante “infocrazia”, mette sicuramente a rischio.